Dear colleagues,
Below I report the call for papers for a conference to be held at La Sapienza University of Rome between 30 and 31 January 2025, organized by me and my colleagues from the PhD course in Italian Studies.
For any information do not hesitate to contact me at giuseppe.marrone@uniroma1.it
Il nome che l’autore si assegna come artefice di un’opera è un atto di creazione posto a sigillo del suo universo narrativo. L’attribuzione della paternità autoriale costituisce uno snodo critico fondamentale, come emerge dall’analisi condotta da Genette sull'importanza del paratesto nell'interpretazione delle opere letterarie, in cui la scelta di un nome viene considerata attività poetica, «qualcosa di simile a un’opera. Se sapete cambiare di nome, sapete scrivere». Inoltre, secondo Jérôme Meizoz «chi accede allo statuto di autore propone un’immagine pubblica di sé che si svincola dalle coordinate anagrafiche. Lo dimostra, al limite, la pratica dello pseudonimo […]. Lo pseudonimo fa dell’autore un enunciatore pressoché fittizio, un vero e proprio personaggio della scena letteraria». Analogamente, anche l’anonimato non si presenta come una scelta dalla valenza neutrale. Il tema non riguarda solo la storia e la critica della letteratura: porsi di fronte ad esso ha avuto, ha e avrà delle ricadute sulle concrete pratiche editoriali e filologiche.
Nella disamina del concetto di autore come funzione strutturale e strutturante, è impossibile prescindere dai contributi di Gianfranco Contini, I nomi degli anonimi, e di Roland Barthes, che nel fondamentale La morte dell'autore definisce la scrittura come «distruzione di ogni voce, di ogni origine», e il testo come un tessuto di citazioni da una langue che si dota di un senso coerente solo grazie all’intervento di un lettore. E allora se «l’unità di un testo non sta nella sua origine ma nella sua destinazione», tutti quei casi in cui ci troviamo di fronte a testi adespoti, di autore incerto o attribuito (si pensi alla Compiuta Donzella o alle rime assegnate ad auctoritates già affermate, come nel caso di alcune disperse pseudo-petrarchesche e delle rime pubblicate sotto il nome di Burchiello) possono essere visti, nell’ottica di uno studio sulla ricezione, come espressione dei sistemi culturali all’interno dei quali la letteratura viene prodotta e fruita. Anche l’assegnazione di un nome da parte del pubblico, dunque, ha delle conseguenze di non poco peso sulle prospettive interpretative di un’opera letteraria.
La tematica è stata spesso trascurata e relegata a mero dato biografico nella presentazione di autrici e autori. L’utilizzo di identità diverse da quella anagrafica ha di rado costituito un oggetto di studio indipendente, pur essendo in realtà strettamente connesso alla genesi di un’opera e alla sua successiva trasmissione. Non dimenticando la lezione di Adrien Baillet, che già nel 1690 aveva tentato di istituire una tassonomia dell’anonimato e della pseudonimia senza giungere a risultati soddisfacenti, si propongono alcuni tra i possibili campi d’indagine; l’anonimato e la pseudonimia, infatti, possono legarsi alla necessità di rivendicare un’appartenenza culturale, storica, geografica.
La questione interessa un arco cronologico amplissimo e declinazioni piuttosto differenti fra loro, se si pensa alla valenza posseduta dalle scelte compiute da autori come Teofilo Folengo (Limerno Pitocco e Merlin Coccaio) o Giuseppe Parini (Ripano Eupilino) in rapporto ad alcune tipologie di scritture adottate (la scrittura maccheronica nel caso del primo, quella accademica per quanto concerne il secondo). Nello pseudonimo adottato da Parini per la pubblicazione dei suoi primi versi è possibile ravvisare pure la messa in rilievo di un rapporto profondo con il proprio luogo d’origine, come già accaduto nei casi di Agnolo Ambrogini (Poliziano) o di Angelo Beolco (Ruzante), che scelsero di legare ad esso la loro intera attività letteraria. Non diversamente, e con risvolti dalle sfumature ideologiche piuttosto significative, faranno due autori fondamentali di inizio Novecento come Italo Svevo (Ettore Schmitz) ed Umberto Saba (Umberto Poli), desiderosi di porre in evidenza la propria appartenenza a dimensioni culturali specificamente connotate.
Avvicinandoci a tempi più recenti, esemplare è il caso di Antonio Porta, pseudonimo scelto da Leo Paolazzi, poeta novissimo e figlio del proprietario della casa editrice Rusconi e Paolazzi, in rottura con la famiglia originaria e in connessione con l’espressionismo lombardo, funzionalizzato, in filigrana, dallo spettro di Carlo Porta. Altro esempio emblematico di pseudonimo utile a innescare collegamenti con la tradizione è quello di Tommaso Ottonieri, nom de plume suggerito da Edoardo Sanguineti a Tommaso Pomilio al tempo dell’esordio, Dalle memorie di un piccolo ipertrofico (Feltrinelli, 1980), di cui Sanguineti fu prefatore, in una (doppia) abluzione battesimale che chiama in causa il Filippo Ottonieri delle Operette morali, e –sia anche metonimicamente – l’intera funzione Leopardi che da lì in poi animerà la sua produzione in prosa e in versi. A non dire di Aldo Nove, nome d’arte di Antonio Centanin tratto da un telegramma diffuso dal CLNAI nell’aprile 1945, «ALDO DICE 26 X 1», per diffondere cripticamente la notizia del giorno (il ventisei) e dell’ora (l’una di notte) in cui sarebbe iniziata l’insurrezione dei partigiani torinesi: un caso di pseudonimo con finalità ideologica, dacché suggerisce la riattivazione della partigianeria nel contesto storico-sociale in cui l’autore opera, vale a dire quello pervaso dal nuovo fascismo globalizzato del mondo tardo-capitalistico, contro cui la scrittura di Nove, dalle prime mosse cannibali a oggi, ha sempre rivolto una critica radicale, sia sul piano della forma sia sul piano della significazione.
Gli pseudonimi possono inoltre esprimere appartenenza a sistemi culturali ben identificati, come nel caso delle Accademie, in cui la scelta del nome è determinata dalla riconoscibilità dell’individuo nel suddetto contesto letterario, e, oltre a configurarsi come una dichiarazione di poetica, riporta il singolo a una dimensione collettiva. Caso estremo è quello dell’Accademia degli Intronati di Siena, in cui si era sviluppata una prassi compositiva che metteva in secondo piano l’autorialità individuale, prediligendo composizioni collettive o adespote: è dunque l’Accademia, come rileva Laura Riccò, «unica vera titolare del diritto d’inventio», in nome della quale l’individualità autoriale è spesso sacrificata. Altro caso celebre è quello dell’Accademia dell’Arcadia, i cui membri nella scelta di nomi di derivazione bucolica concretizzano la loro intenzione programmatica di fingersi pastori: calarsi in questa finzione letteraria è il mezzo prescelto dagli Arcadi per tornare alle pure e belle forme della poesia italiana.
In alcuni casi gli pseudonimi rispondono a esigenze di carattere (auto)censorio per motivi religiosi, politici e di identità di genere. Si pensi ad esempio ad Elsa Morante che, nell’Italia fascista degli anni Trenta, pubblica i suoi racconti con lo pseudonimo di Antonio Carrera; o a Giorgio Bassani che pubblica Una città di pianura con lo pseudonimo Giacomo Marchi, unendo il nome dello zio materno Giacomo Minerbi, al cognome della nonna materna, cattolica, Emma Marchi, per sfuggire alle persecuzioni razziali. Allo stesso modo si muoverà Natalia Ginzburg, per il suo La strada che va in città pubblicato da Einaudi con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte.
Gli pseudonimi possono infine derivare da esigenze dell’industria letteraria o del contesto culturale in cui lo scrittore opera: un esempio può essere rappresentato da autori che si confrontano con generi ritenuti minori o con prove apparentemente eversive rispetto alla produzione precedente; un caso particolare può essere quello di Primo Levi a cui, dopo i primi due libri incentrati sulla testimonianza dell’esperienza del campo di concentramento, la Casa editrice Einaudi consiglierà di utilizzare lo pseudonimo Damiano Malabaila per il suo primo volume di racconti fantascientifici, Storie naturali. Talvolta a imporre la scelta di uno pseudonimo sono state le ragioni del mercato, il proposito di aumentare l’appetibilità del prodotto libro, così ad esempio per molti autori di gialli e di fantascienza, spinti a pubblicare con nomi anglosassoni per incentivare all’acquisto un pubblico abituato a considerare questi generi pressoché esclusivamente d’importazione, si pensi alla celebre collana mondadoriana «Urania» sotto la direzione del fondatore Giorgio Monicelli, aperta alla produzione fantascientifica italiana, sebbene raccomandando l’uso appunto di pseudonimi: così per Julian Berry (Ernesto Gastaldi), L.R. Johannis (Luigi Rapuzzi), Audie Barr (Adriano Baracco).
Un ulteriore caso che invita a riflettere è quello di Elena Ferrante, la cui identità celata e il dibattito sorto con i ricorrenti tentativi di giungere a una definitiva identificazione hanno compartecipato ad alimentare il suo successo commerciale.
Alla luce di questi spunti ci si propone di raccogliere contributi che possano alimentare il dibattito critico sul tema. In particolare, saranno graditi interventi che riguardino i seguenti ambiti, senza precludere ulteriori prospettive di indagine:
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La scelta dell’anonimato
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Opere adespote o di autorialità incerta
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Ragioni e conseguenze ecdotiche della pseudonimia
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Evoluzione del concetto d’autore da una prospettiva storica a una strutturalista
La call for papers è rivolta a dottorande e dottorandi, giovani ricercatrici e ricercatori. Le proposte di intervento, in lingua italiana, di max 2000 battute, dovranno includere una essenziale bibliografia critica e un breve profilo bio bibliografico (da non conteggiare nel computo delle battute). Le proposte andranno inviate entro il 1 novembre 2024 all’indirizzo e-mail convegnopseudonimi.sapienza@gmail.com, indicando nell’oggetto “Proposta comunicazione Convegno dottorale NON FACCIAMO NOMI”. Nel testo dell’e-mail sono da includere le seguenti informazioni: titolo del contributo, nome e affiliazione, indirizzo e-mail per le comunicazioni.